Federer: “Mi chiedo se tra 30 anni ci verrà da sorridere guardando il mio tennis”

Potete leggere l’intervista originale qui


È la notte delle leggende sportive svizzere. Agli Sports Awards 2020 sono infatti stati premiati i migliori atleti del Paese degli ultimi 70 anni – nessuna sorpresa: Roger Federer stravince. Il trentanovenne era visibilmente emozionato, e ha sconvolto i suoi fan dicendo: “Spero che riuscirete a vedermi ancora giocare. Ma se anche così non fosse, sarebbe comunque un finale incredibile”. Lui che non parla mai di ritiro, ci starà forse pensando? In questa intervista, rilasciata due giorni dopo lo show a Schweizer Illustrierte, sembra essere di nuovo fiducioso.

Roger Federer, lei ha vinto così tanti premi, ma sembrava davvero commosso. Un premio nazionale significa ancora così tanto per lei?
Sì, è proprio così! Soprattutto con quei premi che non dipendono da te, ma che sono nelle mani di una giuria o di associazioni o dei fan, ci si sente molto onorati ed emozionati. Per me significava già tanto essere in quella illustre cerchia, la vittoria era secondaria. Sentivo che non c’era ostilità, sarei stato felice anche se avesse vinto qualcun altro.

C’è stato un incontro in particolare quella sera che ha considerato speciale?Certo che sì, è stato bello ascoltare chi già conoscevo, come Simon Ammann [campione del salto con gli sci, ndr], Dario Cologna [sci di fondo]. E insieme a Pirmin Zurbriggen [campione in cinque discipline sciistiche] sono stato l’ultimo a tornare a casa all’una e mezza di notte, abbiamo parlato un sacco. Ho una grandissima ammirazione per lui, l’ho seguito tanto in passato. Per me è un’icona dello sport, così come Vreni Schneider ed Erika Hess [sci alpino]. Non so spiegare perché, ma mi sento molto legato a Pirmin. Non me ne sarei mai voluto andare, dal momento che avevo avuto di nuovo l’occasione di parlare con lui.

I video celebrativi sui campioni dello sport le fanno ancora venire la pelle d’oca?
Quelle immagini con quella musica, oh sì, mi commuovono terribilmente. Per esempio, la vittoria olimpica di Dario Cologna, ricordo perfettamente dove mi trovavo quando è successo. E poi arrivano le mie immagini e penso: ehi, la vittoria al Roland Garros è stata qualcosa di grandioso. Mi vengono i brividi a pensare alle forti emozioni che può scatenare lo sport. Ed è fantastico che anche io abbia una piccola parte in questo grande spettacolo. Belle anche le sequenze sul passato, l’evoluzione del tennis è veramente rapida. Mi chiedo se tra 30 anni ci verrà da sorridere guardando il mio tennis.

I viaggi sono stati molto limitati quest’anno a causa del coronavirus, inoltre lei ha anche subito due operazioni al ginocchio. Si potrebbe dire che il 2020 è stato una sorta di anticipazione della normale vita familiare?
Beh, già nel 2016 avevo provato cosa volesse dire rimanere a casa dopo un’operazione al ginocchio. Devo dire che nonostante tutto quest’anno è passato veloce come un anno nel tour. Per noi era un’assoluta novità stare in un solo posto. Potevamo fare dei progetti, tipo: “Cosa facciamo questo mercoledì? E il prossimo?”. Poi c’erano sempre nuove situazioni e nuove regole a cui doversi adattare, è stato qualcosa di completamente nuovo. Come famiglia siamo sempre insieme, sul circuito o meno, ma lo stress è sicuramente diminuito. Durante la stagione è sempre un: “Papà ha ancora un altro match” o “Non fate troppo chiasso, perché papà è andato a letto alle 3 di notte dopo la partita”. È stato bello, come famiglia, vivere in modo normale.

Boris Becker ha raccontato di aver scoperto la cucina durante il lockdown. Lei ha imparato qualcosa di nuovo?
Se mi guardo indietro, vedo soprattutto gli aspetti organizzativi. Sapevo cosa succedeva in famiglia, cosa gli altri facevano, ma stavolta ero io quello attivo. Avevo molto più tempo, perché non mi era permesso allenarmi così tanto e quindi tutto si è concentrato intorno a me. È una cosa che faccio volentieri. Sono diventato una specie di autista per i piccoli e mi ha fatto piacere scoprire di essere un buon padrone di casa, quando le regole permettevano di ricevere visite. Già prima eravamo felici quando passavano a trovarci gli amici, ma stavolta ho potuto dedicarmi anche a tutto quello che c’è intorno: belle luci, bella atmosfera, il vino giusto. Ho avuto molto più tempo per occuparmene.

Tutti e quattro i bambini giocano a tennis. Come va il doppio delle tue nuove leve?
Abbiamo giocato un bel po’ quest’anno e il bello è che si trova sempre un modo per renderlo divertente. Il problema del tennis è che ci vuole un po’ prima che si riesca a prenderci la mano. Ma poi ci si diverte un sacco. Adesso tutti e quattro riescono a giocare scambi più lunghi e mi chiedono anche se voglio giocare con loro. Ma all’inizio mi dicevano: “Non sei il mio allenatore! Papà non deve interferire nel gioco”. E così ho detto loro: “Okay, nessun problema. Come volete. Prima o poi verrete da me o dalla mamma”.

Le ragazze suonano ancora il pianoforte. Che ci dice invece del suo talento musicale?
Vorrei ricominciare a suonare uno strumento. Spero di averne il tempo, quando smetterò di giocare a tennis. Prima suonavo il pianoforte, ma ovviamente a quel tempo ero già più interessato al calcio, al tennis o al basket. Ogni settimana alle lezioni di piano, dovevo spiegare perché non mi ero esercitato e dicevo: “Colpa del tennis”. E mi rispondevano: “Va bene Roger, proviamo di nuovo questo brano”. Penso sia bello che le ragazze suonino, lo fanno anche abbastanza bene, sono orgoglioso di loro.

È rimasto in contatto con i suoi amici nel tennis? Per esempio con Rafael Nadal
Ho parlato molto con Rafa. Visto che siamo entrambi nel Player Council abbiamo dovuto consultarci di continuo: cos’è meglio per questo sport? Come possiamo mandarlo avanti? Anche nel bel mezzo del lockdown spagnolo ci sentivamo per telefono e lui mi chiedeva come stavo dopo l’operazione. All’inizio ero felice di rimanere ancora un po’ in Svizzera, ma poi ci siamo resi conto che ci mancavano i nostri amici di Londra, New York o Parigi. La nostra vita si svolge sul Tour e ne sentivamo la mancanza.

Rafa Nadal e Roger Federer a Città del Capo, 2020 (foto via Instagram @rafaelnadal)

La nostra generazione non aveva ancora conosciuto una crisi simile. Ha avuto modo di preoccuparsi e rendersi conto di come niente sia da dare per scontato?
Ho avuto un’enormità di tempo per riflettere. La vita sul Tour è così frenetica. Ma mi piace molto stare insieme ad altre persone, con il mio team, con la mia famiglia, con Mirka. Mi piace quando c’è tanto da fare e quando non devo sempre preoccuparmi: come sto io? Come stanno gli altri? Sono abbastanza riconoscente? Per mia natura è estremamente importante per me come stiano gli altri, vengono sempre prima di ogni cosa. Se loro stanno bene, sto bene anche io. Per questo, non avevo bisogno di questo lockdown per accorgermene. Ma forse non tutti erano consapevoli di cosa fosse realmente importante nella vita.

Vale a dire?
Salute, famiglia, amici. Tutte quelle cose che consideri normali. È questo quello che conta, tutto il resto è secondario, ma credo che fosse già nella mente di tutti. Per alcuni è stato bello rimanere a casa. Per altri era terribile invece: fare scuola o lavorare da casa… si può davvero diventare mezzi matti. È una grande sfida e spero che potremo sostenerci tutti a vicenda, come uomini, come svizzeri. Perché quando io sto bene, non è detto che sia per tutti così. Ci si dovrebbe sempre mettere nei panni degli altri e supportarli. Purtroppo penso che però molti non stiano uscendo bene dal 2020 da un punto di vista psicologico.

Lei è attivo con la sua fondazione in Africa. Ha avuto modo di vedere come hanno affrontato lì questa crisi?
Ho come la sensazione che non si sappia così tanto di come sia la situazione in Africa, ma solo di quanto sia grave qui nel mondo occidentale. Abbiamo fatto le nostre telefonate e lì era davvero molto difficile. Le scuole chiudevano e non si riusciva a fare didattica a distanza come da noi. La scuola per questi bambini non è solo un posto dove poter studiare, ma anche dove poter mangiare. E all’improvviso tutto questo è andato perduto. Con la fondazione abbiamo cercato di attutire il colpo nel miglior modo possibile, e abbiamo aiutato con spedizioni, organizzazioni specializzate e partner locali. Ma è stata una grande sfida. Per fortuna ad inizio anno sono potuto andare in Sud Africa e ho giocato lì con Rafa il “Match for Africa”. È stata un’esperienza incredibile e siamo riusciti a raccogliere oltre tre milioni e mezzo di franchi per la fondazione.

Nell’intervista rilasciata prima della rinuncia ufficiale all’Australian Open, Roger aveva parlato di testare il ginocchio nella speranza di essere presente in Australia. “Allenarsi al freddo e indoor non è proprio ottimale” – aveva detto prima del trasferimento a Dubai – “ma sono semplicemente a casa, dove c’è la mia famiglia“.

Traduzione a cura di Claudia Marchese