AMARCORD (1)

31 anni fa, proprio di questi giorni, un gruppetto di appassionati e di giornalisti italiani – fra i quali il sottoscritto – si apprestava a partire per Santiago del Cile, dove dal 17 al 19 dicembre l’Italia avrebbe disputato la sua terza finalissima di Coppa Davis. Ve ne parlo perché quei giorni li rivivo quotidianamente in quanto nel mio ufficio ho, alle spalle, la riproduzione delle prime pagine della Gazzetta dello Sport (“La Davis è nostra”) e del Corriere dello Sport (“Missione compiuta”) che celebrano la conquista dell’insalatiera, e, dirimpetto, un collage di vecchie foto fra cui una che ritrae Rino Cacioppo della Stampa, Daniele Pariolini del Corriere della Sera, Rino Tommasi e me, in abiti ovviamente estivi, a passeggio per le strade di Santiago già addobbate per l’imminente Natale australe.
Magari vi racconterò un’altra volta qualche squarcio di quell’entusiasmante e per certi versi esilarante trasferta. Qui vorrei invece chiarire bene quale fu il mio (trascurabilissimo) ruolo nelle vicende che precedettero la partenza. Ricostruendo in varie maniere la pubblica diatriba che si innescò sull’opportunità “politica” di andare in Cile per giocare la finalissima di Coppa Davis, Gianni Clerici e altri colleghi hanno infatti avuto l’amabilità di inserirmi fra coloro che assediarono la FIT gridando lo slogan “Non si tirano volées / con il boia Pinochet”. Modo pittoresco di descrivere una realtà che fu diversa nelle forme (lo slogan è frutto esclusivo del talento poetico del mitico Gianni) ma non nella sostanza.
Lo sfondo della diatriba, come probabilmente sapete, era costituito dal fatto che la finalissima si sarebbe giocata nello Stadio Nacional, un impianto sportivo che tre anni prima, quando il generale Pinochet aveva compiuto il suo sanguinoso golpe, era stato utilizzato come campo di concentramento e dove molti oppositori erano stati torturati e uccisi. Quando l’Italia si qualificò, sconfiggendo l’Australia al Foro Italico, si sapeva già che avrebbe dovuto affrontare il Cile di Pinochet che in finale ci era arrivato senza giocare perché l’URSS si era rifiutata di icnontrarlo in semifnale. Quindi il caso era già politicamente bollente.
Prima di procedere nel racconto mi permetto di ricordare che quelli furono gli anni più turbolenti dei rapporti sportivi internazionali, anni in cui la ragion di Stato fece definitivamente strame dell’autonomia dei Comitati Olimpici e delle Federazioni, tramutando i grandi appuntamenti mondiali dello sport in occasioni di propaganda politica. Pochi mesi prima della finale di Coppa Davis, per esempio, i Paesi africani avevano boicottato le Olimpiadi di Montreal perché il CIO aveva ammesso la Nuova Zelanda, rea, pensate un po’, di aver giocato a rugby contro il Sudafrica razzista. Poi sarebbero venuti il boicottaggio occidentale dei Giochi Olimpici di Mosca 1980 e quello del blocco comunista dei Giochi di Los Angeles 1984.
Sono cose che a dirle adesso fanno ridere – anzi, fanno pure un po’ senso – ma che allora tutti prendevano terribilmente sul serio.
Così, il giorno dopo la vittoria azzurra su Newcombe e soci, durante la riunione del mattino al mio giornale, “Il Messaggero”, divampò subito il dibattito “Cile sì – Cile no”. Io avevo trent’anni e in me confliggevano la cultura dell’uomo di sport e quella del giovane figlio dei tempi. Pensavo che si dovesse giocare ma che non fosse eticamente accettabile farlo in un posto che grondava sangue. E poi non mi andava giù il fatto che l’argomento preferito dai favorevoli al viaggio fosse il classico “sport e politica vanno tenuti distinti”, quando tutti sanno che da quasi tre millenni è vero il contrario.
“Il Messaggero” dell’epoca era un quotidiano che con orgoglio si definiva “laico, democratico e antifascista”. Due anni prima, di fronte al pericolo che il giornale passasse in mano a un editore di destra vicino al Vaticano, la redazione aveva fatto 17 giorni consecutivi di sciopero, interrompendolo soltanto in occasione del referendum sul divorzio per pubblicare una prima pagina che – incentrata su un gigantesco “NO” – avrebbe cambiato il modo di fare informazione in Italia. La spuntammo: poco tempo dopo i vecchi proprietari ci cedettero alla Montedison, allora controllata dal Partito Socialista Italiano. Era pertanto inevitabile che nel ’76 stessimo da una parte anziché dall’altra.
Così finì che decidemmo di schierarci contro il viaggio in Cile e io scrissi un pezzo in cui spiegavo che c’erano soltanto tre categorie di persone che sostenevano la necessità di tenere separati sport e politica: “i cretini, gli ipocriti e i fascisti”.
Seguirono polemiche, dibattiti, proclami e pubbliche battaglie. L’assalto alla FIT ci fu (se non ricordo male l’iniziativa venne dal defunto PdUP, il Partito di Unità Proletaria) e si concluse con l’esposizione della bandiera cubana dalle finestre, ma non è vero che io vi presi parte: ero lì come giornalista e rimasi per strada. In compenso, sul “Guerin Sportivo” Italo Cucci mi dedicò un pezzo in cui mi definì “cretinetto polisportivo”.
Fu in sostanza una di quelle colossali sceneggiate all’italiana durante le quali – come avrei appreso con l’esperienza – tutti si sentono obbligati a recitare con gran foga il ruolo che gli è stato attribuito senza curarsi veramente del risultato finale. L’importante, qui da noi, è apparire. L’unico che si battè per un obiettivo reale fu capitan Nicola Pietrangeli, che in Cile voleva naturalmente andarci, e alla fine, com’era logico e giusto, la spuntò lui. Il governo Andreotti non si mise di traverso e noi del tennis partimmo in tromba, me compreso, col volo “low cost” organizzato da Puli Bonomi, un uomo al quale il tennis italiano deve sicuramente qualcosa.
1 – continua