Australiani inferociti per l’arrivo dei tennisti, ma l’Australian Open si deve fare

I giocatori sono sbarcati in Australia, e sappiamo che i problemi sono già iniziati; tuttavia, le proteste della popolazione locale precedono qualsiasi tipo di difficoltà presentatasi nelle ultime 24 ore. Il quotidiano “The Age”, infatti, ha chiesto ai propri lettori un parere sul torneo, 2021 che ha portato nel Paese oltre un migliaio (1200, stando alle stime più recenti) di persone tra giocatori e staff provenienti da luoghi dove il Covid-19 è una presenza molto più ingombrante di quanto sia in Australia – in Victoria, i casi locali dal 31 dicembre sono stati 28 (vale a dire non dovuti a rientri di positivi da altri stati), l’ultimo dei quali il 6 gennaio.

Pur con alcuni che accolgono ben volentieri un ritorno alla normalità (o ad una sua parvenza), il responso è stato prevalentemente negativo, e ci si può solo aspettare che il parere dell’opinione pubblica vada ulteriormente in questa direzione dopo la notizia dei casi di positività trovati su due dei voli provenienti da Los Angeles ed Abu Dhabi.

Tanti, in particolare, hanno parlato di un doppio standard da parte del governo, visto che sono stati organizzati i voli per i giocatori ma allo stesso tempo ci sono dei cittadini australiani che stanno provando da mesi a rimpatriare senza successo (ben 37000 secondo ABC News, con Emirates che ha sospeso i voli verso Sydney, Melbourne e Brisbane da oggi) e altri che non possono tornare a Melbourne da un altro stato come il New South Wales o il Queensland. Altri, invece, hanno menzionato il forte rischio di una nuova ondata del virus portata dai giocatori (verso il cui comportamento sembra esserci una notevole sfiducia) e dall’affluenza di pubblico (al momento sono stati messi in vendita il 25 percento dei biglietti ma il CEO di Tennis Australia Craig Tiley aveva parlato di un obiettivo compreso fra il 50 e il 75) che potrebbe mettere a rischio i sacrifici della popolazione locale.

Inoltre, c’è polemica sul fatto che chi rientra in Australia deve fare la quarantena in un albergo designato, e, nonostante l’annuncio di 20 nuovi voli per chi non è ancora rimpatriato, il numero di persone che possono essere riaccolte è stato tagliato in vari stati (anche se non in Victoria e in South Australia, dove si trova Adelaide), un fatto che di sicuro non desta una grande impressione se si pensa che per l’Australian Open i mille e più posti sono sempre stati garantiti (pur con un cambio di residenza e con una sede aggiuntiva in un secondo stato).

La “ragion di stato”

Ormai, però, i giocatori sono arrivati, ed è evidente che il torneo si giocherà, seppur con il rischio di una competizione chiaramente falsata dall’impossibilità di allenarsi per due settimane di 47 giocatori (al momento) – basti pensare che secondo Sorana Cirstea, una delle giocatrici coinvolte, le sarebbero necessarie tre settimane di allenamento per rimettersi in condizione di giocare.

Che sia necessario giocare è stato messo in chiaro dal premier del Victoria, Daniel Andrews, secondo il quale saltare un anno di torneo metterebbe in serio pericolo lo status di Slam del torneo: “Pensare che lo status di torneo del Grande Slam del torneo sia qualcosa di immutabile è semplicemente sbagliato. Certo, si può dire che ci sarà sempre un Australian Open, ma potrebbe essere uno Slam o un torneo regionale, questa è la posta in palio“.

Ora, può anche darsi che le parole di un politico soggetto a recenti e feroci critiche scadano nell’iperbole e nell’esagerazione, ed è difficile pensare che l’Australia possa perdere il suo Major in tempi brevi (anche perché c’è un contratto fino al 2039 per la sua permanenza sull’isola), ma di sicuro se uno dei quattro può rischiare qualcosa, questo è Melbourne: è quello con meno storia, essendo stato disertato in massa dai migliori fino al 1982 (quando venne istituito un premio per chi fosse riuscito a completare il Grande Slam) e in qualche misura per ancora un decennio, fino al 1994, quando il montepremi si impennò per la prima volta; è quello che presenta le maggiori sfide logistiche per i giocatori in termini di viaggi; e le temperature elevate degli ultimi anni sono state un problema, un po’ per i collassi dei giocatori in campo, un po’ per gli incendi del 2020 che già avevano messo a repentaglio la disputa dell’evento.

Al di là di questo, però, le parole di Andrews possono essere ricondotte soprattutto alle esigenze dell’economia locale e a quelle di Tennis Australia, e sembra giustificare un sacrificio per il governo e per la federtennis, che dovrà fare leva sulle proprie riserve di 80 milioni di dollari australiani (circa 49 milioni di euro), già intaccate di un paio di milioni nel terzo trimestre del 2020, con le misure aggiuntive per i giocatori che avranno un costo stimato di circa 40.

Nel 2019, il Financial Review ha calcolato che il torneo abbia portato 2,3 miliardi di dollari australiani nelle casse dell’economia del Victoria nel decennio precedente, con un aumento sempre maggiore. Essendo rimasto indietro per anni, infatti, l’Happy Slam è quello che ha avuto la crescita recente più impetuosa: l’anno scorso per la prima volta è stato sfondato il muro degli 800.000 spettatori (812.174) e il prize money è cresciuto del 13 percento, per un totale del 60 percento in più rispetto a cinque anni fa – si è addirittura triplicato rispetto al 2007; in aggiunta, Tennis Australia stima che nel 2020 il torneo sia stato trasmesso in oltre 900 milioni di abitazioni al giorno; i milioni di minuti di partite trasmesse in streaming sulla piattaforma del canale televisivo Nine sono stati quasi il doppio rispetto al 2019; e il match fra Nadal e Kyrgios ha avuto un picco televisivo sulla TV australiana di 3,36 milioni di persone (il più alto dell’anno precedente).

I piani a lungo termine di Tennis Australia

Tuttavia, non si tratta solo di non mettere il freno a un treno in corsa (secondo Inside Sport, Tiley nel 2019 aveva puntato a sfondare il muro dei 500 milioni di fatturato in un anno), ma anche di coprire i corposi investimenti fatti negli ultimi anni. Il governo locale ha investito 271,55 milioni di dollari per la terza fase del rinnovo di Melbourne Park (la seconda ne era costati 338), e anche Tennis Australia ha investito largamente, se pensiamo che il surplus del periodo 1° luglio 2019-30 giugno 2020 è stato di soli 4,4 milioni.

Per coprire i costi, lo svolgimento del torneo diventa imperativo, se pensiamo che i guadagni totali da “Operations and events” (quindi i tornei dell’Australian Open Series) costituiscono oltre il 90 percento degli introiti di Tennis Australia (429 milioni di dollari australiani su circa 455), un fenomeno di dipendenza che ha messo in difficoltà molte federazioni che non hanno potuto organizzare i rispettivi tornei (Tennis Canada su tutti).

Tale dipendenza è acuita in questo caso dalle perdite per la scorsa Laver Cup di Boston (la manifestazione è co-organizzata da Tennis Australia), per la riduzione della ATP Cup da 24 a 12 squadre (gli incontri saranno 57 su 19 sfide fra nazionali invece di 129 su 43) e per il ridimensionamento dei tornei locali che precedono lo Slam, tornei la cui vendita dei biglietti è ancora in forse e la cui visibilità sarà un gioco a somma zero, visto che si giocheranno tutti in contemporanea.

Le difficoltà potrebbero essere aumentate dal fatto che, come detto, sono stati finora messi in vendita il 25 percento dei biglietti per l’Australian Open, ma Tiley aveva parlato di un obiettivo finale fra il 50 e il 75. Il problema è che si punterà solo sul mercato locale, che potrebbe saturarsi in fretta, perché quelli che potranno presenziare per tanti giorni saranno una bassa percentuale; non solo, ma anche quelli che vorranno presenziare per tanti giorni potrebbero essere pochi, se il timore nei confronti del virus e di un potenziale super-spreader event prenderà il sopravvento. Eppure non ci sarà altra via se non cercare di spremere il mercato interno: basti pensare che nel 2018, per esempio, il 49 percento degli spettatori erano esterni a Melbourne (anche se solo il 12 percento venivano da fuori dell’isola, e quindi una riapertura dei confini potrebbe teoricamente rendere più facili le vendite).