QUANDO IL BUE DICE CORNUTO ALL’ASINO

Uno dei peggiori vizi che praticamente tutti gli uomini condividono è quello di attribuire agli altri i propri difetti. L’avaro pensa che tutti siano avari, il vanitoso che tutti passino il proprio tempo davanti allo specchio, l’invidioso si sente invidiato, il bue dice cornuto all’asino, e via discorrendo.
Da questo vizio non sono ovviamente immuni i giornalisti, che hanno gli stessi difetti e le stesse debolezze (soprattutto le debolezze…) della gente comune, dalla quale alcuni di loro si distinguono, semmai, per la pretesa di avere diritto a trattamenti di favore. Era perciò inevitabile che quei due-tre luminari della penna che hanno costruito la propria fama sull’anti-italianismo e sulle disgrazie altrui finissero, nell’ambito della vicenda-Bolelli, per attribuire alla FIT lo stesso senso di scorno che provano loro quando un tennista o una tennista azzurra ottengono dei bei risultati. E’ bastato che il bravo Simone vincesse una partita perché i fucili, ben oliati durante l’interminabile pausa invernale, cominciassero a sparare le pallottole così a lungo tenute in canna, riempiendo i giornali di fandonie tipo quella che i dirigenti federali tiferebbero contro Bolelli.
Se il fenomeno del transfert non fosse ormai stato sviscerato dalla psicologia, dentro certi articoli gli studiosi troverebbero un sacco di materiale interessante. Ma in questa specifica vicenda non può comunque mancare il sospetto che, oltre all’inconscio, un ruolo lo stia giocando la malafede. Perché un giornalista – specie quando si considera più bravo degli altri – dovrebbe tenere conto dei fatti. E i fatti sono che più di una volta (la prima quando ne annunciò la sospensione; l’ultima ieri, ai microfoni di Radio Rai), il presidente Binaghi ha detto e ripetuto che la FIT fa il tifo per Bolelli e si augura che raggiunga i massimi traguardi possibili nei tornei individuali.
Ci mancherebbe altro! Bolelli è uno dei primi e più sugosi frutti della politica di rinnovamento di questa Federazione, la quale ha contribuito in maniera decisiva alla sua crescita, e ogni sua vittoria è anche una vittoria dell’intero movimento. Non giocherà più in Nazionale perché così impongono le regole dell’intero sport italiano e perché è eticamente inaccettabile che qualcuno indossi la maglia azzurra dopo averle anteposto gli interessi personali. Ma questo non c’entra un bel niente con i sentimenti con i quali vengono accolti i suoi risultati nei tornei, che non sono e non possono essere diversi dalla felicità in caso di successo e dispiacere in caso di sconfitta, così come avviene nei confronti di qualsiasi altro giocatore italiano, qual che sia il livello della competizione.
Piaccia o no ai luminari della penna, la realtà – documentata – è questa. Se vogliono continuare a distorcerla noi non potremo far altro che scuotere sorridendo la testa, come d’altronde facciamo da una vita. Anche se, stavolta, alla compassione si mescolerà un pizzico di preoccupazione. Perché questa patetica vicenda ha un risvolto talmente paradossale da risultare inquietante: non sarà che l’essere costretti a tifare per un tennista italiano finirà per provocare un cortocircuito nei già sovraccarichi neuroni di questi signori? Ecco dove, forse, gli psicologi potrebbero scoprire qualcosa di veramente inedito.