ADDIO FEDERICO, LA TUA E’ UNA MORTE INGIUSTA

Questa è una rasoiata. Un colpo improvviso, secco e silenzioso, di quelli che aprono ferite nitide e diritte, impossibili da suturare prima che il sangue ne sia sgorgato fuori di getto. Un colpo così inconcepibilmente brutale da non farti né capire da dove è arrivato né sentire dolore: guardi la ferita e ti chiedi come sia stato possibile che te l’abbiano inferta senza che te ne accorgessi. Anche perché cose così, se proprio devono accadere, non accadono a uno come Federico, che la forza di vivere – e di vivere come voleva lui – la portava scritta in faccia, sul quel sorriso da lenza che opponeva, come una barriera, alle lusinghe e alle minacce del destino.
Nella piccola storia del nostro tennis, proprio questo Federico in qualche modo rappresentava: la capacità di essere se stesso nel bene e nel male, l’impermeabilità alle infiltrazioni, la baldanza da toscano incosciente. Ricordate? Nel 2001 l’appena eletto presidente Binaghi si trovò a fronteggiare uno “sciopero della maglia azzurra” da parte di decine di giocatori e giocatrici. C’era da andare a giocare in Davis a Helsinki, contro la Finlandia dell’astro nascente Nieminen, e il neocapitano Barazzutti puntò su di lui, che era poco più che un ragazzino, su quel genio stravagante di Mosè Navarra, su Vincenzo Santopadre e su un altro baby di belle speranze, Filippo Volandri.
Poteva essere una catastrofe, e invece l’Italia vinse, gettando la prima pietra della rivoluzione che avrebbe rigenerato la FIT. Nel match che aprì la sfida Luzzi batté 14-12 al quinto set Liukko, imprimendole subito la svolta decisiva.
14-12: ecco, nel punteggio di quel quinto set c’è una bella fetta di Federico Luzzi, della sua tignosa caparbietà e della combattività che potevano farne un campione, un sorta di nuovo Gardini, e che invece sono rimaste armi utilizzate più nella vita, a rincorrere chissà quali obiettivi, che nel tennis. Sempre sorridendo malandrino, Federico diede un breve seguito all’impresa finlandese, raggiungendo gli ottavi al Foro Italico e quindi mettendo alla frusta, in settembre, la Croazia del campione di Wimbledon Ivanisevic nello spareggio-promozione di Coppa Davis. Ma poi si infortunò e non si riprese neppure quando guarì. Sempre battagliero, ma sempre meno a suo agio, lui così leggero, nel confronto con i bombardieri del nuovo tennis, Luzzi ha mancato ogni tentativo di ritornare al vertice, anche se per un giorno, poco più di un anno fa, riuscì persino a ritrovar posto nella squadra di Coppa Davis e a vincere il suo singolare a risultato acquisito contro il Lussemburgo ad Alghero.
Adesso non c’è più, cancellato nel giro di pochi giorni dalla ottusa furia di una malattia di quelle che non avvisano e non perdonano. Lo piangono gli amici del cuore, i pochi che sapevano che cosa si celasse davvero dietro a quel sorriso. Lo piangono coloro che hanno continuato a tifare per lui anche nei challenger, delusi da quel che poteva essere e non era stato e tuttavia disposti a perdonare una così simpatica canaglia. Lo piangono persino, ne sono certo, quelli – e non sono stati pochi – che ci hanno litigato, in campo e fuori. Perché a uno come Federico Luzzi, in fondo in fondo, non si poteva non volere bene. Ed è anche per questo che la sua morte ci appare come una di quelle ingiustizie così insopportabili da farci persino dubitare che la vita abbia davvero un senso.