AMARCORD (3): AUSTRALIA ’77

Il 2008 ha appena emesso i suoi primi vagiti e già il tennis ha ripreso il cammino attorno al mondo, ricominciando, com’è ovvio, da là dove fa caldo. Fra qualche giorno, poi, tutti convergeranno a Melbourne per il primo grande appuntamento della stagione. Invidio i giocatori, i giornalisti e tutti coloro che si apprestano a raggiungere quel meraviglioso Paese che è l’Australia, bellissimo e abitato da gente serena nel cui DNA predominano i geni che trasmettono l’amore per lo sport e per i suoi valori. Per noi del tennis, poi, l’Australia è il Paese delle 28 Coppe Davis, di Laver e di Rosewall, di Hoad e di Newcombe, di Margaret Court-Smith e di Evonne Goolagong, una specie di Mecca da visitare con religioso fervore almeno una volta nella vita.
Io ci sono stato un bel po’ di volte, ma adesso non ci vado da oltre dieci anni e ne sento forte la nostalgia. Conosco Sydney e Melbourne, Adelaide e Perth, Port Douglas e le isole della Grande Barriera Corallina. Un giorno, durante un pazzesco viaggio aereo di 36 ore filate da Città del Messico a una cittadina del nordest chiamata McKay, sono persino atterrato a Rockhampton, la città natale di Laver, e se invece di ridecollare subito mi avessero lasciato sbarcare giuro che appena sceso mi sarei inginocchiato per baciare il suolo.
Ricordo ancora con grande emozione la prima volta che andai in Australia. Era il dicembre del 1977, l’occasione la seconda tappa dell’epopea della Nazionale che l’anno prima aveva conquistato la Coppa Davis in Cile. Gli azzurri si erano qualificati per la seconda delle loro quattro finali in cinque anni grazie a un facile successo a Baastad con la Svezia priva di Borg, a una rissosa vittoria per 3-2 in terra di Spagna (l’evento merita un breve excursus: Zugarelli si rifiutò di subentrare a Panatta a risultato acquisito e Adriano, indispettito, si fece battere 61 60 dallo sconosciuto Soler; il pubblico di Barcellona reagì male, insultandolo, e quando qualcuno osò dargli addirittura una cuscinata sulla testa Panatta si tuffò fra la folla come un missile terra-aria, scatenando un parapiglia che quasi tutti i giornalisti italiani condannarono inzuppando la penna nell’ipocrisia), e a una mezza passeggiata romana contro la Francia.
23 ore di volo, comprensive di due tramonti, ci portarono a Sydney dopo scali a Bahrein, Bombay, Bangkok e Singapore. Eravamo i soliti, con in più l’esordiente Oliviero Beha. Stavolta c’era anche Guido Oddo, il telecronista che la Rai aveva lasciato a casa in occasione della finale dell’anno prima. Oddo, maniaco dell’abbronzatura, salì in aereo nero di lampada e atterrò pallido e scolorito, beccandosi micidiali sfottò, ma poi ebbe modo di rifarsi sulla mitica spiaggia dei surfisti, Bondi Beach.
Nonostante l’enorme vantaggio orario sull’Italia (10 ore), posate le valigie andammo subito allo stadio White City, che all’epoca ospitava anche l’Open d’Australia (ad anni alterni: l’altra sede era Melbourne), per vedere gli allenamenti degli azzurri e raccogliere materiale per i nostri articoli. Trovammo un Nicola Pietrangeli molto nervoso, e non soltanto per le fastidiosissime mosche cavalline che imperversavano dovunque, costringendoci a spalmarci di un semi-inutile liquido repellente. Quella sarebbe stata la sua ultima panchina di capitano e lui, che viveva da giorni a fianco dei congiurati, lo sospettava già. Ci rilasciò dichiarazioni pepate, che edulcorammo per amicizia ma che comunque contribuirono a complicare le cose.
Furono giorni caldi, e non solo per via dell’estate australe. Sydney si rivelò bellissima, la città più bella del mondo, e irresistibile, popolata da gente meravigliosa (tutti tipo Crocodile Dundee, anche le possenti donne) e ricca di attrattive: acquari, musei, ristoranti raffinati e carissimi (Eliza’s nel quartiere di Double Bay, soprannominato “double pay” per via dei prezzi), quartieri a luci rosse, spiagge, battelli, squali ed altri spettacolari animali.
Anche la finale fu caldissima. Nel primo match Panatta prese un liscio e busso memorabile da Tony Roche e subito dopo Barazzutti, a causa delle baruffe della vigilia preferito a Zugarelli nonostante si giocasse sull’erba, non fece più di un set contro Alexander. Sembrava già finita perché il doppio australiano, Alexander-Dent, era uno dei più forti del mondo, e invece Adriano e Bertolucci giocarono forse la più bella delle loro partite e li batterono tre set a zero.
A quel punto l’Italia intera si mobilitò per assistere in diretta, nella notte fra sabato e domenica, agli ultimi due singolari. Gruppi di amici si riunirono davanti al televisore, muniti di cibarie e sigarette, per vivere di persona le emozioni che grazie ai satelliti quel confronto avrebbe proposto loro da 18.000 chilometri di distanza. Panatta perse il primo set ma poi ribaltò l’esito dell’incontro e si portò avanti per 2-1. In Italia quasi albeggiava ma il tifo era alle stelle. A quel punto, però, il tempo si guastò. A White City si alzò un vento capriccioso e fastidioso, una raffica di qua e una di là, con velocità sempre diverse. Sia Alexander sia Panatta, entrambi molto alti, lo pativano quando si trovavano al servizio. Adriano, però, lo patì un po’ di più, e perse i successivi due set 8-6 e 11-9 (all’epoca in Davis non c’era ancora il tie break). Il sogno di un bis mondiale svanì così, in una caliginosa serata australiana e nel corrispondente mattino italiano, lasciandoci ancor più amaro in bocca perché nell’inutile match successivo Barazzutti dimostrò di poter tenere testa a Roche prima che la notte li fermasse sul 12-12 nel primo set.
A ripensarci oggi, credo che nel nostro Paese il tennis abbia toccato proprio in quei giorni il vertice massimo della sua popolarità. All’epoca non c’era ancora l’Auditel (la Rai era monopolista), ma nonostante fossero gli anni dei trionfi di Lauda con la Ferrari do per certo che nei gusti degli sportivi e negli spazi di cui godeva il tennis era secondo soltanto al calcio e sopravanzava la Formula 1. Poi vennero la cacciata di Pietrangeli e il patetico tracollo di Budapest. La magìa di quella squadra si era incrinata a Sydney e neppure le finali del ’79 a San Francisco e dell’80 a Praga furono sufficienti a ricostruire l’incanto della vigilia australiana.